SALVATORE NATOLI
(Lectio magistralis)
Ore 18.30 – Teatro Savoia

Filosofo italiano, si è laureato presso l’Università Cattolica di Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Ha insegnato Logica alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia e Filosofia della Politica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano.
Attualmente è professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca.

In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un neopaganesimo, cioè di un’etica che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti dell’uomo e del suo essere necessariamente un ente finito (v., in particolare l’opera La salvezza senza fede), in contrapposizione con la tradizione cristiana.

Conosciuto come il filosofo dello stare al mondo, si distingue nel panorama filosofico italiano e internazionale, in serrato dibattito e confronto con il Cristianesimo, approdando a una nozione di etica del tutto singolare e radicata nell’ontologia, prima che nella deontologia. Nella sua ricerca Salvatore Natoli ha preso ad oggetto passioni e affetti. Una particolare e approfondita analisi ha dedicato al tema del dolore, affrontato in diverse sue opere. Il dolore è parte essenziale della vita e una soluzione all’inevitabilità del dolore può essere l’adesione a un nuovo paganesimo secondo l’antica visione greca dell’accettazione dell’esistenza del finito e della morte dell’uomo. Per il neopaganesimo la vita finita è degna di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos, che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell’universale fragilità umana. Altri temi centrali nella sua speculazione sono rappresentati dalla teoria dell’azione e dalle forme del fare, dove l’agire non è un semplice fare, ma consiste propriamente nel dar senso a quel che si fa. Natoli siede nella redazione di varie riviste ed è ampiamente presente nel dibattito filosofico e culturale contemporaneo. Tra le opere: L’esperienza del dolore: le forme del patire nella cultura occidentale (1986); Vita buona vita felice: scritti di etica e politica (1990); La felicità: saggio di teoria degli affetti (1994); La felicità di questa vita (2000); Stare al mondo (2002); La verità in gioco. Scritti su Foucault (2005); Guida alla formazione del carattere (2006); Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia (2009); L’edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore (2010); Eros e Philia (2011); Sperare oggi (2012); Perseveranza (2014); Il rischio di fidarsi (2016); L’animo degli offesi e il contagio del male (2018).

VANDANA SHIVA
(Dialoga con Stefano Liberti)

Vandana Shiva è una studiosa indiana e attivista politica e ambientalista, si è battuta per cambiare pratiche e paradigmi nell’agricoltura e nell’alimentazione; si è occupata anche di questioni legate ai diritti sulla proprietà intellettuale, alla biodiversità, alla bioetica, alle implicazioni sociali, economiche e geopolitiche connesse all’uso di biotecnologie, ingegneria genetica e altro. È tra i principali leader dell’International Forum on Globalization.
Nasce nel 1952 a Dehra Dun nell’India del nord, nel 1978 Shiva consegue il dottorato di ricerca in filosofia alla University of Western Ontario, Canada, con una tesi vertente sulle implicazioni filosofiche della meccanica quantistica, dal titolo “Variabili nascoste e località nella teoria quantistica”. Successivamente si occupa di ricerca interdisciplinare (scienza, tecnologia e politica ambientale) all’Indian Institute of Science e all’Indian Institute of Management di Bangalore. Dopo aver fatto ritorno in India abbandona il campo della filosofia della scienza per dedicarsi all’agricoltura.

Nel 1982 fonda la Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy e si dedica ai temi della biodiversità, della bioetica, delle implicazione socio-economiche connesse all’uso delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica. Nel frattempo inizia a seguire con attenzione l’impegno femminile per la difesa del pianeta e si unisce al movimento Chipko, che a partire dagli anni Settanta è stato protagonista di proteste che hanno visto le donne indiane mobilitarsi contro la deforestazione. Ha fondato l’associazione Navdanya (in hindi “nove semi”). Per il suo impegno a favore della popolazione indiana e per la sua lotta in difesa dell’ambiente, è stata premiata con il Right Livehood Award. Il 9 aprile 2013 ha ricevuto dall’Università della Calabria la laurea honoris causa in Scienza della nutrizione.

Nel breve saggio “Povertà e globalizzazione” Shiva correla la povertà del terzo mondo agli effetti della globalizzazione. In esso si ritrovano in sintesi i punti chiave del suo pensiero, che ha esposto in altri libri.

«Noi possiamo sopravvivere come specie solo se viviamo in accordo alle leggi della biosfera. La biosfera può soddisfare i bisogni di tutti se l’economia globale rispetta i limiti imposti dalla sostenibilità e dalla giustizia. Come ci ha ricordato Gandhi: “La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone”.»

LETIZIA BATTAGLIA
(Dialoga con Gianna Piano)

Nel 2017 il New York Times l’ha messa nella liste delle undici donne dell’anno. Letizia Battaglia è riconosciuta come una delle figure più importanti della fotografia contemporanea, non solo per i suoi scatti saldamente presenti nell’immaginario collettivo, ma anche per il valore civile ed etico da lei attribuito al fare fotografia.

Un album ininterrotto che passa dalle proteste di piazza a Milano negli anni Settanta al volto di Pier Paolo Pasolini, dai tanti morti per mafia, alla inconsapevole eleganza delle bambine del quartiere della Cala a Palermo; e poi le processioni religiose, lo scempio delle coste siciliane, i volti di Piersanti Mattarella, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino al feroce boss Leoluca Bagarella.

Inizia la sua carriera nel 1969 collaborando con il giornale palermitano L’Ora. Nel 1970 si trasferisce a Milano dove incomincia a fotografare collaborando con varie testate. Nel 1974 ritorna a Palermo e crea, con Franco Zecchin, l’agenzia “Informazione fotografica”, frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna.

Nel 1974 si trova a documentare l’inizio degli anni di piombo della sua città, scattando foto dei delitti di mafia per comunicare alle coscienze la misura di quelle atrocità.

Suoi sono gli scatti all’hotel Zagarella che ritraevano gli esattori mafiosi Salvo insieme ad Andreotti e che furono acquisiti agli atti per il processo. Le sue foto, spesso in un vivido e nitido bianco e nero, si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne (la Battaglia predilige i soggetti femminili), i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria.

Letizia Battaglia è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, il Premio Eugene Smith, a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il fotografo di Life. Un altro premio, il Mother Johnson Achievement for Life, le è stato tributato nel 1999. Ha esposto in Italia, nei Paesi dell’Est, Francia (Centre Pompidou, Parigi), Gran Bretagna, America, Brasile, Svizzera, Canada. Il suo impegno sociale e la sua passione per gli ideali di libertà e giustizia sono descritti nella monografia delle edizioni Motta: Passione, giustizia e libertà (lo stesso titolo di una sua mostra recente).

Nonostante le sue radici profondamente siciliane, la Battaglia si era trasferita nel 2003 a Parigi, delusa per il cambiamento del clima sociale e per il senso di emarginazione da cui si sentiva circondata, ma nel 2005 è tornata nella sua Palermo, fondandovi il Centro internazionale di fotografia. Convinta della validità dell’impegno civile come fattore di cambiamento, nel corso degli anni ha messo il suo talento e la sua passione al servizio di cause diverse, dalla questione femminile, ai problemi ambientali, ai diritti dei carcerati, in veste di fotografa, regista, editrice e ambientalista.

PINO BERTELLI

Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra ‘Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta’. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale situazionista italiana.

Nel 1993, il regista tedesco Jürgen Czwienk, ha girato un documentario sulla vita politica e l’opera fotografica di Pino Bertelli: ‘Fotografare con i piedi’. Il regista Bruno Tramontano ha realizzato un cortometraggio, ‘Adoro solo l’oscurità e le ombre’, tratto dal suo libro, ‘Cinema della diversità 1895-1987: storie di svantaggio sul telo bianco. Mascheramento, mercificazione, autenticità’. Il pittore Fiormario Cilvini, ha illustrato lo stesso testo in una cartella di 18 disegni a colori e una scultura. I suoi scritti sono tradotti in diverse lingue. L’International Writers Association (Stati Uniti), l’ha riconosciuto scrittore dell’anno 1995, per la “non-fiction”.

Nel 1997 i suoi ritratti pasoliniani di fotografia di strada sono esposti (unico fotografo) in una mostra (Le figure delle passioni) con 16 maestri d’arte a Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno [Pier Paolo Pasolini, maestro e amico, gli ha regalato la prima macchina fotografica quando aveva quindici anni]. È direttore responsabile della rivista di critica radicale Tracce, Cobas (Giornale dei Comitati di Base della Scuola) e del giornale on-line Stile libero, direttore editoriale della casa editrice Traccedizioni, collabora con Le monde diplomatique, Fotographia, Sicilia Libertaria, AParte. Materiali irregolari di cultura libertaria e altre testate. Nel 1999 ha ricevuto il “Premio Castiglioncello” per la fotografia sociale. Nel 2004 il “Premio Internazionale Orvieto”, per il miglior libro di reportage, Chernobyl. Ritratti dall’infanzia contaminata. Nel 2014 l’Associazione di bioarchitettura BACO gli ha assegnato il “Premio Internazionale Vittorio Giorgini”. Alessandro Allaria ha fatto un reportage (per la televisione tedesca), ‘Pino Bertelli. Il fotografo e le donne di Napoli’, 2008. Nel 2014 il regista Antonio Manco ha realizzato a Buenos Aires, ‘Pino Bertelli. Ritratto di un fotografo di strada’, prodotto dal Festival del Cinema dei Diritti umani di Napoli e Buenos Aires. Nel 2017 esce il dittico libro—film, ‘Genti di Calabria. Atlante fotografico di geografia umana e I colori del cielo’, con la regia di Francesco Mazza. I suoi fotoritratti si trovano in gallerie internazionali, musei, accademie e collezioni private.

L’Archivio Internazionale di Fotografia Sociale di Pino Bertelli è curato dalla documentalista Paola Grillo (che collabora sul campo e con i testi a tutti i libri fotografici di Bertelli). Una parte del suo archivio fotografico è depositato all’Università di Parma. Il fondo Pino Bertelli (circa 5000 libri) è consultabile nell’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia), un fondo fotografico (200 fotografie di ritratti piombinesi dal 1982 al 1994), è nell’Archivio Storico del Comune di Piombino. La mostra fotografica ‘Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma’ si trova al MAGMA (Museo delle arti in ghisa nella Maremma) di Follonica. Una rassegna di fotografie su alcune fabbriche di Hattingen è al LWL – Industriemuseums Henrichshütte di Hattingen (Germania). Una selezione delle sue fotografie è presso la Galleria degli Uffizi di Firenze. La sua opera (Contro tutte le guerre) è stata esposta alla Mostra d’Arte Biennale di Venezia (2011) e adesso è nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

Fa parte di Reporters sans frontières

JASON HICKEL
(Dialoga con Alberto Pozzolo)

Jason Hickel, antropologo, ha insegnato presso la London School of Economics, la University of Virginia e la Goldsmiths, University of London ed è membro della Royal Society of Arts. Collabora con The Guardian, Al Jazeera e numerose testate online. Oltre a “The Divide” ha pubblicato “Democracy as Death” (2015). La ricerca di Hickel si concentra sulla disuguaglianza globale, sull’economia politica, sul post-sviluppo e sull’economia ecologica.

«The Divide» è il divario economico tra ricchi e poveri del mondo: 4,3 miliardi di persone vivono con meno di 5 dollari al giorno, mentre otto uomini posseggono la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta.

“Per decenni economisti, politici e agenzie per lo sviluppo ci hanno raccontato che l’origine del problema è di natura tecnica, legata a difficoltà interne dei paesi poveri, e che tutto potrebbe essere risolto se, con l’aiuto dell’Occidente, questi adottassero politiche e piani di intervento adeguati. Ci hanno detto che la povertà sarà sconfitta nel 2030.” Non è così. Jason Hickel ripercorre la storia dello squilibrio economico globale, smontando una dopo l’altra le bugie che ne hanno accompagnato la narrazione e mettendo in luce le responsabilità dei paesi ricchi: da Cristoforo Colombo e dalla nascita del colonialismo al discorso di insediamento del presidente Truman nel 1949, quando nacque la retorica degli aiuti ai paesi «sottosviluppati»; dagli interventi militari per impedire la costituzione di modelli economici alternativi, come nel Cile di Allende, all’istigazione al debito portata avanti dalle banche occidentali. Ma “The Divide” non è solo un regolamento di conti col passato. È un libro che apre spiragli per il domani, presentando soluzioni rivoluzionarie ai problemi della disuguaglianza: democratizzazione dei principali organi internazionali di governance come l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale, istituzione di un salario minimo globale, ripensamento del valore attribuito al Pil, investimenti sostanziali nell’agricoltura rigenerativa. Come afferma lo stesso Hickel: «Una volta che la gente inizierà a rifiutare la storia unica dello sviluppo, il futuro sarà fertile e ricco di possibilità».

WIM MERTENS
in duo con Nicolás Dupont, violino

Wim Mertens, pianista e compositore fiammingo, è tra i musicisti d’avanguardia che hanno spinto la propria ricerca fino a creare un linguaggio musicale assolutamente personale e distintivo: chiaroscuri, intimismo e solarità, sperimentazione e romanticismo. Durante il concerto per pianoforte e voce, Mertens dialoga con il suo strumento, utilizzando un suo personalissimo “linguaggio” vocale, un inusuale canto in falsetto fatto di suoni e non di parole.

Una “petite musique de chambre”, come lui stesso la definisce, che nasce da piccole intuizioni e accostamenti ricercati. Mertens ha coniato una nuova forma di minimalismo, meno rigido e più emotivo. Una musica colta ed accessibile, al tempo stesso. A una lunga serie di prodotti discografici, dagli album per pianoforte e voce a quelli con ensemble e grandi orchestre (tutti lavori che non nascondono mai il principio di dare al disco il giusto ruolo di oggetto d’arte), alle colonne sonore per il cinema (è sempre riuscito a stimolare sensazioni di eccitazione, nostalgia, conflitto, passione, interpretando e impreziosendo le scene di grandi registi come Greenaway, Cox, Boutron, Delluc e Shaw) e il teatro, affianca da sempre una feconda attività concertistica sui palcoscenici di tutto il mondo. Una musicalità sostanzialmente diretta, affascinante, che cattura l’ascoltatore anche meno smaliziato. Eppure lo stile forte di un’intrinseca complessità e di un’ardita struttura labirintica hanno fatto di Wim Mertens un vero e proprio maestro nella divulgazione della musica contemporanea che, tra citazioni e richiami, svolge la propria matassa in più direzioni, risalendo da quella classica alle origini stesse del minimalismo.

Molti lo collocano nella galassia indefinita dell’ambient music, affollata di suoni rarefatti e atmosfere statiche. Ma il compositore fiammingo ne rifugge la freddezza: “Il mio scopo – racconta – è comunicare le emozioni attraverso la musica e utilizzo prevalente- mente la melodia perché credo sia il miglior mezzo per esprimerle”.

Trent’anni anni fa Wim Mertens pubblicava “Struggle For Pleasure”, uno dei dischi che hanno fatto la storia della “new music” europea. E uno dei brani che è rimasto maggiormente nel cuore di un pubblico sempre più numeroso e appassionato. Il compositore e pianista belga, che continua con determinazione il suo cammino innovativo di ricerca e innovazione, propone in concerto le nuove composizioni contenute nel suo ultimo album “That which in not” (in cui propone il razionale con il giocoso, il “per divertimento solo” con il “dopo virtù”) e, per l’occasione, i brani composti nei primi anni della sua carriera. Pagine come “Close Cover”, “Struggle For Pleasure”, “4 Mains”, “Multiple 12” sono ormai considerati dei “classici” in tutto il mondo.

NEDIM GÜRSEL
(Dialoga con Jean Portante)

Scrittore turco naturalizzato francese, insieme a Orhan Pamuk e Yaşar Kemal è tra gli scrittori contemporanei più importanti della Turchia. Fuggito dal suo Paese dopo il colpo di Stato del 1980, insegna letteratura turca alla Sorbona a Parigi. Il suo romanzo Ilk Kadin (1986. “La prima donna”) ha ricevuto il premio «Ipekçi» per il suo contributo al riavvicinamento dei popoli greco e turco, ma è stato a lungo censurato dai militari in Turchia perché ritenuto offensivo per la morale e diffamante per l’esercito.

Le accuse contro Gürsel sono in seguito cadute ma lo scrittore è dovuto tornare davanti ai giudici turchi nel 2009 a causa del suo ultimo romanzo Allah’ın kızları (2008) (“Le figlie di Allah”), incentrato sull’infanzia e la gioventù del profeta Maometto. L’accusa, da cui è stato assolto, è quella di aver insultato i valori religiosi. Il libro, che in Turchia ha venduto 30 mila copie, è, come altri romanzi di Gürsel, un romanzo a più voci. Di Gürsel sono usciti in Italia anche Bogazkesen, Fatih’in Romani (1996; trad. it. Il romanzo del conquistatore 1997) e Son Tramvay (1991; trad. it. L’ultimo tramway 2002), oltre all’autobiografico Sag Saglim Kavussak, Çocukluk Yillari (2004; trad. it. Nel paese dei pesci prigionieri. Un’infanzia turca 2007). Il suo ultimo romanzo “L’angelo rosso” è stato pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2016.

L’autore ha ricevuto il Prix de la liberté del PEN club francese ed è membro fondatore del Parlamento internazionale degli scrittori. Oggi insegna letteratura turca contemporanea alla Sorbona di Parigi ed è direttore della ricerca sulla letteratura turca all’International French Science Research Center (CNRS).

RAUL ZURITA
(Dialoga con Jean Portante)

Quella di Raúl Zurita è una delle voci più importanti della letteratura latinoamericana contemporanea. Cileno classe 1950, di origine italiana, da sempre ha mostrato un forte interesse per la scrittura, per l’arte nel suo senso più globale e per la militanza politica. Al tempo stesso, il contatto con la cultura italiana, che avvenne grazie alla profonda relazione che aveva con la nonna materna e la complessa situazione socio-politica cilena che affrontava nella sua quotidianità, tracciarono quello che sarebbe stato il suo percorso artistico. Non a caso, la sua opera è fortemente segnata dalla dittatura militare di Pinochet instaurata dopo il golpe dell’11 settembre 1973 quando, militante comunista, fu arrestato, torturato e detenuto sulla nave cargo Maipo. Zurita ha sempre sostenuto un’arte che si fa, accessibile a tutti.

In perfetta simbiosi con la vita. La fusione e il dialogo costante tra arte e vita che caratterizzano la sua formazione e il suo credo artistico lo avvicinarono alle attività del CADA (Colectivo de Acciones de Arte), le cui performance provocatorie arrivarono sulle strade di Santiago e perfino nel cielo di New York. La sua proposta artistica si è articolata attraverso diverse tematiche che si intrecciano fra loro: la riflessione sulla natura cilena, l’amore per un’umanità che soffre, la denuncia contro la violenza, in ogni sua forma, perpetrata nel corso del XX secolo. Tutte queste riflessioni sono state proiettate in opere imprescindibili, come la trilogia “Purgatorio” (1979), “Anteparaíso” (1982) e “La Vida Nueva” (1994), considerata tra le più importanti della sua produzione poetica. Senza dimenticare, “Canto a su amor desaparecido”, “Inri” (Premio Nazionale di Letteratura del Cile), “Cuadernos de guerra”, “Zurita”, fino al recentissimo “Habré vuelto a ver de nuevo las radiantes estrellas” Raúl Zurita e Dante Alighieri. Nel 2016 per il suo contributo letterario al mondo latinoamericano riceve il premio Iberoamericano di Poesia Pablo Neruda dal Consiglio Nazionale cileno della Cultura e dell’Arte, e gli viene conferito dall’Università Ca’ Foscari di Venezia il Premio Alberto Dubito International alla carriera. Sulla sua produzione letteraria ha affermato che il colpo di Stato del 1973 è stato la colonna vertebrale della sua opera, “come se da allora avessi scritto un solo libro, incentrato su quel giorno”. Zurita comunque non si è limitato a scrivere e pubblicare poesie. Come recentemente ha dichiarato: “Mi parve che i linguaggi della letteratura cilena precedenti al colpo di Stato del 1973 non riuscissero a dare conto della frattura che si era prodotta nelle nostre vite”. E poi, con una evocazione di Artaud: “Al poeta tocca essere la prima vittima, quella che rappresenta tutti gli altri. Ma deve essere anche il primo dei caduti che si rialza per annunciare che vengono tempi nuovi”. E così, alla pubblicazione dei suoi versi ha cominciato a unire la realizzazione di performance, nelle quali si è spinto persino a gesti autolesionisti, per esprimere “l’impotenza di fronte alla realtà e la necessità di dire senza parole”.

Memorabile anche la performance newyorkese del 1982: dopo aver ottenuto il sostegno finanziario di varie università statunitensi e il supporto materiale del MIT, il poeta ha fatto tracciare in cielo da cinque aerei quindici versi in spagnolo tratti da La vida nueva, con lettere fatte di fumo, a più di 4000 metri d’altezza.

In seguito ha poi spiegato Il motivo per cui scelse di scriverle in spagnolo: “Scrissi in cielo quei versi della mia poesia in spagnolo come omaggio ai gruppi minoritari, rappresentati in quel caso dalla popolazione di lingua spagnola degli Stati Uniti, le persone che si trovano nelle peggiori condizioni di vita della società nordamericana”.

Un altro grande happening realizzato da Zurita nel 1993 è stato una rievocazione dei geroglifici di Nazca: il verso “Ni pena ni miedo” scritto nel deserto di Atacama, nel nord del Cile, in dimensioni gigantesche: 3 km di lunghezza per 400 metri di larghezza (si può vedere con Google Earth).